Pietro De Silva: “Il teatro deve raccontare la verità assoluta”
Abbiamo incontrato Pietro De Silva, celebre attore cinematografico e teatrale, a margine del debutto dello spettacolo ‘Questo è l’anno della svolta, me lo sento’, scritto da Veronica Liberale ed in programma al teatro Trastevere di Roma dal 23 al 28 ottobre.
De Silva ne ha firmato la regia e abbiamo approfittato della sua disponibilità per farci raccontare quali sono i suoi punti di vista su quello che oggi è il teatro.
Afferma dunque di essere fermamente convinto che in questo settore la quantità non paghi, al contrario sostiene che inseguire la qualità permette di realizzare sì un numero contenuto di lavori ma fatti sempre bene.
Nelle vesti di docente di recitazione in diversi seminari, l’autore incita i suoi allievi a tenere bene a mente questo principio per poi vedere gli aspiranti attori in azione, stimolarli e ammirare, infine, come rappresenteranno il proprio personaggio, soprattutto attraverso la loro sensibilità individuale.
Pietro De Silva è un personaggio a tutto tondo che, anche grazie alla sua scrittura, è capace di far volteggiare i suoi personaggi in molteplici modi, a seconda dei disegni registici e degli allestimenti.
Pietro De Silva, come si comporta quando dirige un testo altrui?
“Faccio in modo di rispettare il testo che affronto, però mi piace anche modificarlo, sempre con l’assenso dell’autore stesso. Nel montaggio della tessitura registica lavoro sempre con un sistema di work in progress, come se fosse una sorta di piccolo montaggio cinematografico, curato nei dettagli. Incredibile a dirsi ma la complessità di un testo è insita più in un copione con pochi interpreti, perché purtroppo c’è meno possibilità di concertazione. Ho diretto anche spettacoli con 23 attori sulla scena, ed è proprio questo tipo di drammaturgia quella che mi stimola di più”.
Quali sono i punti di forza del testo di Veronica Liberale?
“Veronica ha una grande sapienza narrativa ed è molto spiazzante nella dinamica degli eventi, tutto ciò che racconta non è mai prevedibile. Questo è molto importante per il fruitore dello spettacolo perché dai testi di Veronica non si evince mai un’evoluzione che si colloca nei canoni della consuetudine. Per quanto riguarda i suoi copioni, trovo che siano pervasi da un umorismo contagioso, con delle note amare che sottendono un vissuto complesso della psicologia di ogni personaggio”.
A cosa non si può rinunciare secondo lei all’interno di uno spettacolo a teatro?
“Alla verità, intesa come verità assoluta, più spiazzante della verità vera. Il pubblico è stanco del teatro recitato, vuole verità anche nel grottesco, anche nel sopra le righe. Una verità che coinvolge e che fa dimenticare al pubblico di essere pubblico e di assistere ad uno spettacolo, quindi tutto ciò che concerne l’aspetto ipnotico della materia teatrale e del coinvolgimento emotivo. Questo è sicuramente sempre più difficile da realizzare in questi tempi subissati da migliaia di forme di comunicazione aggressiva ed invadente”.
In quale veste si sente più a suo agio, più libero? Regista, autore o attore?
“Adoro tutte e tre le forme di professione nell’ambito del teatro. Sono tre emozioni diverse: quella dell’attore, col riscontro immediato dal pubblico, è una sorta di amore corrisposto tra palco e platea, con grandi scariche di adrenalina, altalenante col divertimento e la concentrazione estrema, insomma sicuramente non una passeggiata. Poi quella dell’autore, che ti pone in una sorta di funzione creativa dei personaggi che prendono vita, grazie alla tua penna, in mille modi diversi a seconda dei disegni registici e degli allestimenti. Infine quella del regista, che deve mediare tra attore e autore cercando di rendere al meglio, anche con pochi mezzi a disposizione, perché ricordiamoci che il teatro è povero e sarà povero da sempre e per sempre. E in questo sta la sua sublime forza”.
Quanta libertà lascia ai suoi attori quando li dirige?
“Adoro gli attori propositivi e non gli attori marionette. È chiaro che nella tessitura dei movimenti ci vuole molta perfezione, niente deve essere lasciato all’improvvisazione, ma una volta in scena l’attore deve far vivere il personaggio che interpreta attraverso la lente d’ingrandimento della sua personalità e della sua energia interiore. Io sono dell’idea che ogni personaggio può avere mille sfaccettature diverse. E poi l’aspetto fondamentale è tutto insito nella fragilità dell’attore, gli attori non vanno compressi, ingabbiati, instradati bensì vanno incoraggiati e motivati: soltanto in questo modo rendono il massimo”.
Spesso conduce stage di recitazione per aspiranti attori: quale rapporto ha con i giovani? Le piace lavorare con loro?
“Sono meravigliosi, duttili, curiosi, attenti. È bellissimo lavorare con loro e per loro, ti regalano un entusiasmo e un candore veramente spiazzanti. Alcuni hanno grandi aspettative e fremono per essere sulla scena e per avere riscontri positivi ed immediati. Spesso non è facile comunicare loro che purtroppo la strada è impervia, lunga e molto dura, non si può né illuderli né disilluderli, bisogna essere molto onesti in modo che sappiano fin da subito che sarà un percorso sicuramente non facile e che risultati e i traguardi più appaganti verranno sempre quando meno se l’aspettano. Dico costantemente ai miei allievi dei master di cinema che bisogna perseguire sempre e comunque la qualità a discapito della quantità. Fare poche cose ma farle al massimo e al meglio, in un clima che ti appaga e certamente non in un clima ostile. Quindi avendo l’accortezza di sottrarsi a situazioni o proposte che potrebbero rivelarsi professionalmente invivibili. E soprattutto la regola fondamentale è quella di non pensare 24 ore su 24 al proprio mestiere d’artista ma coltivare parallelamente altre mille passioni. Questo è uno stratagemma infallibile per non invecchiare mai”.
Gabriele Amoroso