Il “Festival delle connessioni umane 2.0”, organizzato dal teatro Carcano, ha imperversato nelle periferie del capoluogo lombardo. Ricco e interessante, lo scorso 29 agosto ha proposto ‘Gaza ora’, rappresentazione in cui le sedici voci protagoniste hanno scosso le coscienze di ognuno, interrogandosi sul ruolo dell’Occidente nei confronti del conflitto iniziato il 7 ottobre ’23
Siamo responsabili delle scelte che facciamo e non di quelle che ci vengono calate dall’alto per ascendenza di sangue o di tradizione. Vale per noi che oggi siamo chiamati ad assegnare senza negoziarlo il confine tra quello che consideriamo accettabile e quello che non lo è. E vale per le milioni di persone che si trovano a nascere nel luogo più difficile, oggi, dove vivere i 42 km per 12 che il mondo conosce come Striscia di Gaza.
Dove, racconta chi la porta addosso, alla condanna dell’etichetta di terrorista fin dal primo respiro è sufficiente la colpa di esserci nati dentro. È indubbio che per comprendere vicende risalenti in un tempo impossibile da decodificare coi soli strumenti attuali occorra fare un esercizio di attitudine e di disponibilità alla complessità. Che, tuttavia, non può prescindere dal mettere a terra una teoria, da qui, comunque distante, nella dimensione personale, nelle vite singole di ogni individuo.
Gaza ora: raccontare la guerra vista da dentro
Il teatro Carcano la sua scelta l’ha fatta, o quantomeno la dichiara, ospitando all’interno del Festival delle connessioni umane il progetto ‘Gaza ora’.
Sedici voci per raccontare la guerra vista da dentro ammesso che di guerra si possa parlare laddove l’esercito armato si contrappone di fatto una popolazione civile. I concetti, certo sono complessi, ma le parole sono precise e spietate, come, genocidio. Come disperazione.
E del resto, quali altre parole ci si può aspettare o si può chiedere a chi come Hossam al-Madhoun sente di poter contrastare l’impotenza delle stesse di fronte alla morte e alla distruzione soltanto usando la propria penna di drammaturgo, regista e creatore di teatro per far vivere quelle immagini fuori dal confine chiuso della Striscia.
Lettere da un caro amico
Nasce così il progetto “Letters from a dear friend”, raccolto dal AZ Theatre di Londra, in continuità con un legame con il Theatre for Everybody di Gaza lungo quindici anni. Così com’è risalente la radice della storia che le lettere raccontano, a molto prima del 7 ottobre 2023.
Eppure, a partire da questa data, Hossam tiene un diario costante per quanto si può sotto le bombe, a cui Valentina Carnelutti, Jonathan Chadwick, Lella Costa, Maddalena Crippa, Luca d’Addino, Malina De Carlo, Anna Della Rosa, Federica Fracassi, Michele Gorlero, Ruth Lass, Maysoon Pachachi, Enrico Pittaluga, Iante Roach, Angelo Romagnoli, Tanita Spang e Dalal Suleiman prestano una voce talvolta rotta, talaltra rabbiosa o soltanto netta, non per riempirsi la bocca di slogan o petizione di principio, ma per esprimere cosa davvero sta accadendo oggi a Gaza.
Ed è un filo volutamente senza pause che presto alimenta un senso di accumulo sufficiente da solo a tagliare il fiato di chi ascolta, costretto già dopo pochi minuti a rendersi conto dell’impossibilità forse persino di immaginare vite intere che non hanno conosciuto altro che distruzione bombardamenti e morte.
Potremo davvero stupirci (lo diceva Gino Strada, e vale a ogni latitudine) se decenni di tutto questo finiranno con l’alimentare una nuova rabbia?
La mentalità colonialista
È, se c’è bisogno dunque di sentirsi coinvolti in prima persona per misurare l’orrore, questo genocidio che distruggerà la nostra società, come chiarisce l’ideatore Iante Roach, anche per tale motivo?
A meno che non siamo disposti a fare i conti con le nostre colpe come Occidente, viene da pensare ascoltando, non solo per le azioni di oggi (praticate o mancate) ma anche e forse soprattutto per la mentalità colonialista con la quale ci siamo abituati a trattare il mondo come una cartina bianca, su cui tracciare linee per coprire altre mancanze o altri errori.
Perché forse hanno radici, molto prima del 7 ottobre, a Gaza come altrove, tutte le volte in cui qualcuno è stato costretto a rassegnarsi alla morte, a vedere strade lastricate di cadaveri verso il mercato, dove manca la frutta e la farina si compra a dieci volte il suo prezzo, in sacchi da venticinque chili, senza chiedersi da dove sia venuto il rumore del bombardamento che ha appena sentito, perché tanto ce n’è uno ogni cinque minuti.
La responsabilità è anche di chi quel quotidiano non lo vive, se chi sta a trecento metri non conosce la sorte del proprio vicino, mentre chi sta a 2.700 Km, come una figlia disperata che frequenta il suo master, è costretta a chiedersi, senza poter chiamare nessuno, se la bomba di cui parla il telegiornale ha ucciso la tua famiglia, tua madre cieca, o tua nonna anziana M, o anche il tuo cane.
Forse con le nostre misure è difficile da comprendere chi parte portandosi dietro una chiave di casa vecchia di 80 anni, però lo è molto meno vedere, con lo sguardo dell’empatia, famiglie costrette a separarsi perché almeno uno resti vivo, o rendersi conto di quanto tutto quello che consideriamo scontato non lo sia più.
Gaza ora: domande sgomente senza risposta
Come sopravviverà una donna con un’ulcera allo stomaco sotto le bombe quando le medicine dentro gli ospedali non ci sono più e si muore, poiché questi sono diventati obiettivi sensibili?
Come farà a non impazzire una nonna a cui bisognerà spiegare che i 9 km che la separano dai suoi figli non saranno forse mai più colmabili, o il figlio che, riuscito a scappare da una galera a cielo aperto, dovrà sopportare il senso di colpa di essere sopravvissuto?
Una madre che, incapace di rassegnarsi alla perdita di un figlio che si trovava nel posto sbagliato al momento sbagliato, continua a stendere ad asciugare i suoi vestiti in attesa che torni?
Con quali parole si può raccontare la polvere e il sangue sui corpi dei bambini, e una realtà in cui anche piangere – come è inevitabile fare anche semplicemente ascoltando – è un lusso che non ci si può permettere.
Cosa resta per noi, cosa resta di noi? Si chiede Hossam. Cosa resta, chiede come l’amico che scrive al mondo, senza sapere se ha il diritto di farlo, di chi non ha soltanto più una tenda e affoga nel fango dalle piogge e che non è più in grado di sorridere?
E vorrebbe poter veder tornare tutti a casa, a cominciare dagli ostaggi di Hamas rapiti il 7 ottobre.
L’esercizio del potere
Cosa resta invece a noi da fare se non evitare di chiudere gli occhi e continuare a raccontare e a dare voce, anche col teatro, se si può, prendendosi il coraggio di metterci la faccia.
In tutti quei conflitti, come questo, (e lo si puntualizza, sopra e sotto il palcoscenico, non senza una certa dose di coraggio, dove nulla c’entra la religione in cui ciascuno è stato cresciuto, ma soltanto l’esercizio del potere.
È comprensibile, pertanto, sentirsi coinvolti quando ad essere chiamata in causa è una storia personale con cui ancora non si sono fatti tutti i conti. Eppure forse, invece, bisognerebbe spostare il pensiero sulla misura della responsabilità. Su quello che i valori di qualsiasi cultura concordano a considerare oltre ogni possibile spiegazione.
Senza mai banalizzare, senza darsi alibi e nell’indifferenza interi territori a partire dalle radici delle loro piante perché “Lì dove gli ulivi muoiono le colombe non troveranno più rami di olivo per costruire i nidi per i cuccioli di domani”.
Chiara Palumbo
Villa Scheibler – Milano
Festival delle connessioni umane 2.0
29 agosto
Gaza ora
Messages from a dear friend
con Lella Costa, Maddalena Crippa, Malina De Carlo, Angelo Romagnoli, Tanita Spang, Dalal Suleiman, Jonathan Chadwick, Ruth Lass e Iante Roach [Az Theatre, Londra]
testi originali Hossam al-Madhoun
Artwork Indira Dominici
Consulente artistico Angelo Romagnoli
Consulente progettuale Fulvia Zeuli
Grafica Jean-Sébastien Barrais
progetto AZ Theatre (Londra) e Theatre for Everybody (Gaza)
Progetto internazionale di ascolto collettivo che porta il pubblico dentro la città assediata, tra le tante voci che compongono il diario che l’attore Hossam al-Madhoun invia da Gaza, dove vive e opera
Traduzioni italiane Fabrizia Baldissera, Giovanni Bienne, Omar Elerian, Victoria Fiore, Umberto Mazzei, Tommaso Nelli, Yasmina Moussaid, Isabella Prigione, Orsola Privitera, Fulvia Zeuli e Giuliana Zeuli
Editing Fabrizia Baldissera, Tommaso Nelli e Iante Roach